Il percorso di Kiko per diventare un brand globale? Passa per l’ingresso in nuovi mercati, con l’apertura di circa 300 negozi da qui al 2023. A fissare questi obiettivi è Cristina Scocchia, CEO di Kiko, intervenuta al 5° Beauty Summit di Pambianco in collaborazione con Cosmetica Italia.
Kiko è il primo brand italiano di cosmetica per fatturato. Lei è arrivata in piena fase di turnaround. Quale è il bilancio di questi anni?
Sono arrivata a luglio 2017 e la sfida era bellissima: prendere le redini del primo brand italiano di cosmetica, nonché piccola multinazionale – un’azienda dal 600 milioni di fatturato pre-Covid, presente in 27 Paesi, con oltre 7mila dipendenti – e riportarla alla crescita dopo anni difficili. Abbiamo creato una nuova squadra e abbiamo avuto il coraggio di lasciare quei mercati, come gli Usa, che non erano la scelta giusta per noi. Abbiamo chiuso il 14% dei negozi e, liberando queste risorse, abbiamo investito in innovazione di prodotto e digitale. Tra il 2018 e il 2019 abbiamo portato avanti una trasformazione intensa che ci ha permesso di aumentare l’efficacia operativa e di raddoppiare l’ebitda di Kiko. Poco dopo però è iniziata la pandemia. In una fase senza precedenti non ci siamo lasciati scoraggiare: nonostante il 2020 sia stato difficile, siamo entrati in Arabia Saudita, nei Balcani, in Grecia e abbiamo aperto una quarantina di negozi.
Quindi in due anni avete chiuso circa 150 store, in linea con il piano di ristrutturazione, mentre nel 2020 avete aperto circa 40 nuovi negozi…
Esatto e l’idea è quella di continuare ad accelerare. Quest’anno vogliamo entrare in 10 nuovi mercati in franchising, aprire 100 negozi e questo ritmo di aperture dovrebbe caratterizzare 2021, 2022 e 2023. Aprire 300 negozi per un’azienda come la nostra vuol dire crescere di circa un terzo. Questo ci permetterebbe di creare anche un migliaio di posti di lavoro.
Avete anche rifinanziato l’azienda?
Il retail è tra i settori più penalizzati dalla pandemia. A marzo, aprile e maggio 2020 oltre il 90% dei negozi è rimasto chiuso. Durante la seconda ondata poi in molti Paesi abbiamo registrato un’altra fase di stop. Il retail a livello globale, pur con differenze tra i diversi Paesi, ha perso il 35-45% del suo giro d’affari. Noi abbiamo perso circa un terzo del nostro fatturato. Abbiamo cercato di gestire il problema della liquidità con un rifinanziamento da 270 milioni di euro che ci ha dato la possibilità di non fermarci. Durante la crisi era importante non perdere competitività.
Come si inserisce il franchising nella struttura distributiva di Kiko?
È una scelta che abbiamo fatto perchè l’obiettivo del turnaround, oltre al ritorno alla crescita profittevole, era anche quello di portare l’azienda dalla dimensione regionale, inteso come sud-europea, a quella globale. Il franchising permette di trovare, nel mercato di sbocco, un partner competente, che conosce la realtà locale, e di dividere i costi. L’azienda corre meno rischi e può quindi procedere più velocemente. I mercati che abbiamo aperto dal 2019 e che apriremo in futuro saranno tutti in franchising. Ora abbiamo retail, franchising ed e-commerce. L’obiettivo è l’equilibrio dei tre canali.
Come vede l’azienda da qui a tre anni?
L’obiettivo nei prossimi tre anni è diventare un’azienda che sfiori i 50 mercati. A quel punto potremo definirci un’azienda veramente globale. Dovremo avere tra i 1.200 e i 1.300 punti vendita attivi e integrare fisico e digitale. C’è un modo diverso di fare retail e riteniamo che il negozio debba diventare un luogo in cui non si offrono solo prodotti, ma soprattutto servizi ed esperienze.
L’online è anche uno strumento per studiare i mercati?
Nel 2018 abbiamo lanciato il nostro e-commerce in Cina e questo ci ha dato un’enorme mole di dati sui consumatori. Ora siamo pronti a fare dei passi ulteriori. In mercati così diversi fare contemporaneamente un debutto online e fisico è molto rischioso. In questo modo si procede invece a un lancio più studiato.
All’estero come viene visto e vissuto il marchio Kiko?
All’estero Kiko è un brand ancora più giovane di quanto non sia in Italia. In Italia è il brand cosmetico con la maggiore quota di mercato, quindi parla a tutti. In altri Paesi abbiamo una quota di mercato ridotta, ma una percentuale più alta di clienti Millennials. Il nome ‘Milano’ aiuta nel brand?
Il nome ‘Milano’ ci sta aiutando molto all’estero. Ci ha permesso di essere degli ‘ambasciatori affordable’ di italianità.
La maggioranza di Kiko è della famiglia Percassi. La minoranza invece fa capo a un fondo. Oltre all’aspetto finanziario, che contributo ha dato il fondo?
Credo che l’apertura dei capitali aiuti a rendere più sofisticata la governance di un’azienda. Oltre al capitale i private equity portano conoscenza. Con Peninsula, che ha un’expertise significativa in Middle East e in Asia, abbiamo acquisito network su quei mercati. Peninsula ha aiutato questa azienda a evolvere, a rendere più sofisticata la governance, oltre ad accelerare il percorso di espansione internazionale.
Quali sono gli step strategici individuati per il futuro di Kiko?
È ovviamente una scelta dell’azionista. Il Covid però non ha solo penalizzato i risultati 2020, ma anche i primi quattro mesi di quest’anno. Oggi ogni scelta è prematura, anche se mai dire mai rispetto alle diverse eventualità. Purtroppo credo che il 2021 e i primi sei mesi del 2022 saranno ancora complessi.