Il presidente di Cosmetica Italia analizza lo stato dell’arte e le previsioni di un settore che ha saputo posizionarsi meglio di altri segmenti dei beni non durevoli
È orgoglioso di quello che definisce ‘un settore di eccellenza’. Fabio Rossello, presidente di Cosmetica Italia, non usa mezzi termini nel valorizzare il beauty italiano, sottolineando come il comparto industriale sia sano e cresca in controtendenza rispetto ad altri settori manifatturieri nazionali. Sviluppo legato soprattutto al forte boost delle esportazioni e a consumi interni che quest’anno segneranno probabilmente il ‘turning point’ dopo il calo del 2014. Rossello annuncia la fine del ciclo ‘quaresimale’ della spesa degli italiani. Sembra cioè che si stia superando l’eccessiva sobrietà nell’acquisto di prodotti di bellezza, e i consumatori ormai dichiarano di comprare dappertutto, in un’ottica multi-canale, a seconda della convenienza e dell’occasione. Il presidente dell’associazione, che riunisce il 95% delle imprese cosmetiche italiane, fa un’analisi ad ampio raggio sull’evoluzione in corso nelle aziende, sui mutamenti che coinvolgono i consumi e sulle trasformazioni davvero impetuose che stanno cambiando la distribuzione.
Dopo il calo dell’1,4% nel 2014 dei consumi beauty italiani, si prevede dunque per il 2015 il ritorno al segno più?
Sì, probabilmente sarà l’anno della svolta verso un segno positivo, anche se lieve: +0,3 per cento. Del resto, il Pil italiano è previsto in crescita dello 0,7%, anche se non tutti i settori avanzeranno. Invece, la cosmesi si conferma anelastica, anticipando una ripresa che altri mercati nazionali ancora faticano a registrare.
Lei parla di un comparto industriale in salute, anche se la crescita del mercato interno è ancora lieve. Lo sviluppo viene dall’export?
Certo. Il giro d’affari delle aziende cosmetiche italiane aumenterà del 3% nel 2015 a 9.635 milioni di euro, e l’export segnerà +8% a 3.600 milioni di euro. Comunque il nostro settore vanta primati nell’intero comparto industriale italiano. La quota degli investimenti in ricerca e sviluppo delle aziende beauty è pari al 7% sul fatturato, percentuale doppia rispetto alla media della manifattura italiana. Sul fronte occupazionale, il numero di laureati nelle imprese della bellezza è l’11% sull’organico totale, contro il 6% della media nelle aziende in Italia. E doppia rispetto alla media è anche la quota dell’occupazione femminile: le donne impiegate sono il 54% sul totale lavoratori, contro una media nazionale del 28 per cento. Il saldo commerciale, dal 2009 al 2014, è stato in espansione anno dopo anno, con un aumento del 23,5% nel 2013. Cui ha fatto seguito un +8,1% nel 2014, mentre quest’anno, con importazioni pressoché stabili, la bilancia dei pagamenti tocca i 1.900 milioni di euro, record assoluto per il comparto. Diciamo pure che la cosmetica italiana in questi anni ha saputo posizionarsi meglio degli altri settori dei beni non durevoli.
L’apertura di monomarca, che è stato uno dei fattori di successo per le griffe della moda, potrebbe essere un driver di sviluppo anche nel beauty?
Non credo che nei prossimi anni assisteremo a un impetuoso sviluppo dei monobrand. Certo, le aziende che hanno già investito in questa strategia, continueranno il loro percorso con nuovi opening, ma il vero driver di crescita per le aziende italiane è nell’internazionalizzazione.
Passando al consumatore, come è cambiato negli anni l’atteggiamento nei confronti dello shopping di prodotti beauty?
Vent’anni fa il consumatore era facilmente ‘targettizzabile’. Non solo nel beauty, ma in tutti i settori. Per esempio, chi comprava abbigliamento in una boutique non acquistava ‘in piazza’, cioè al mercato. Oggi, invece, la donna che acquista nel monomarca di Louis Vuitton completa poi lo shopping da Zara. Questo cross-buying è una tendenza molto forte anche nella bellezza.
Probabilmente è stato proprio questo approccio del consumatore verso la multicanalità a spingere la distribuzione verso forme di ibridazione, come i self service drug.
Nel mondo del beauty c’è stata una profonda evoluzione negli anni. Si pensi anche alla nascita delle grandi superfici di profumeria, cioè alle catene come Sephora. Questi format sono stati una prima forma di ibridazione, perché hanno portato nella profumeria il ‘libero servizio’, caratteristica questa che un tempo era più tipica del supermercato che del negozio indipendente. Oggi, accade che all’interno dei self service drug si possano acquistare prodotti mass market e anche alcuni profumi prestige. È una tendenza che ha già preso piede all’estero, in drugstore come Cvs Pharmacy o Duane Reade che hanno in assortimento anche prodotti farmaceutici. Il prossimo passo dell’integrazione in Italia potrebbe arrivare proprio dal mondo della salute, se sarà approvato dal Parlamento il Ddl che apre la proprietà delle farmacie (attualmente riservata solo a persone fisiche, a società di persone e a cooperative a responsabilità limitata, ndr) alle società di capitali. Niente di più facile quindi che un’ulteriore ibridazione possa avvenire, nel caso, tra grande distribuzione e farmacie. I cambiamenti li vedremo nei prossimi anni, ma gradualmente. Nel nostro Paese non c’è niente di fulmineo.
In questo momento, le profumerie risentono, più di altri canali, di una crisi d’identità. La super-specializzazione verso il lusso è una via per il rilancio?
Indubbiamente, le profumerie devono trovare una loro identità e l’upgrading è una strada possibile. Il problema è che nel nostro Paese la ricchezza è penalizzata, mostrare il lusso oggi è un disvalore, diventa ostentazione. Quindi, finché la ricchezza gode di una percezione negativa, non sarà facile perseguire questa strada. In ogni caso, sono convinto che arriveremo a un periodo più consumerista, che non è dietro l’angolo, ma si svilupperà nel prossimo lustro. Nel frattempo, la profumeria deve investire per creare un ambiente, un assortimento e una shopping experience che valgano effettivamente il prezzo in più che il consumatore gli riconoscerà.
di Vanna Assumma