Dario Ferrari, ad di Intercos, è il precursore dei terzisti italiani del make-up. E, oggi, i suoi competitor sono all’estero. Punta alla borsa, ma prima vuole crescere ulteriormente, con qualche acquisizione.
Un visionario. Snocciola cifre e parla di intelligenza artificiale (“in Cina si arriverà a downloadare il proprio cervello per applicarlo a un robot”). È l’AD di un’azienda, ma non parla da economista, e non solo di numeri. Dario Ferrari, patron di Intercos, a Pambianco Beauty racconta come sta evolvendo il terzismo. Ma evidenzia la sua capacità di ‘andare oltre’, che, forse, è una delle ragioni del suo successo. L’impero che ha costruito ha fatturato l’anno scorso 409 milioni di euro (con ebitda margin al 15%) e si appresta ad archiviare il 2016 a oltre 460 milioni di euro. Conta 4.000 dipendenti, 9 centri di ricerca, 13 impianti produttivi e 13 uffici marketing in 4 continenti. E, da solo, ha dimensioni superiori a tutti i terzisti italiani del make-up messi insieme. Intercos quindi è un trend setter, in quanto leader nel settore del colour cosmetic, ma presente da circa 8 anni anche nel comparto skincare, dove vanta buone posizioni in Europa e Usa. Queste performance, probabilmente, sono anche legate al fatto che Ferrari è stato il primo ad aver lanciato questo business in Italia, perché ha fondato l’azienda 44 anni fa e oggi dispone del 57% del capitale azionario (il 43% è del fondo Catterton). Quanto conta il vantaggio di essere stati i primi a puntare su questo business? Arrivare primi è stato sicuramente fondamentale per portarci alle dimensioni attuali. Giocando in anticipo, sono arrivato presto a capire come il settore stesse cambiando a vista d’occhio, passando da un contoterzismo tradizionale, con produzione su commessa, a un b2b in grado di fare innovazione. E ho puntato proprio su quest’ultima leva. Così oggi lanciamo centinaia di nuove formulazioni ogni anno. E tante aziende stanno replicando questo modello di business, ma all’inizio eravamo i soli.
Chi sono i vostri concorrenti?
La vera concorrenza non arriva dall’Italia ma dal resto del mondo. Per il make-up ci riteniamo leader mondiali, mentre, per quanto riguarda lo skincare, i big sono i coreani. Ci confrontiamo con giganti come Cosmax o Kolmar.
Qual è il vostro ‘plus’ rispetto ad altri?
Parlo del make-up perché è il nostro core business, e voglio sottolineare che il ‘colore’ è l’attività più complessa che esiste nel mondo della cosmetica. Perché per ogni tipologia di prodotto – dallo smalto alla matita all’ombretto e alle emulsioni – si necessita di tecnologie totalmente diverse, di materie prime specifiche, di impianti ad hoc e di tecnici dalla professionalità differente. È una galassia. E la complessità è ulteriormente accresciuta dal fatto che ci rivolgiamo a più Paesi, con persone dalla pelle molto diversa e con particolari dettami culturali. In tutto questo, ciò che ci distingue è la nostra spinta verso l’innovazione. Su 4.000 dipendenti, 621 si occupano di ricerca e sviluppo. Nessuna impresa del make-up conta così tante professionalità dedicate all’innovazione.
Più volte avete provato a quotarvi ma poi avete rinunciato. Siete pronti adesso per la Borsa?
Nel 2014 abbiamo fatto un roadshow per presentarci agli investitori e devo dire che mi sono divertito tanto. L’obiettivo quindi è quello di andare in Borsa, ma è ancora presto. Prima dobbiamo fare qualche altro passo, crescere ulteriormente, magari con acquisizioni.
Qualche acquisizione l’avete fatta recentemente in Asia.
Abbiamo rilevato il 20% della coreana Hana e stretto una joint-venture con il retailer Shinsegae, quotato alla Borsa di Seoul. Shinsegae appartiene a Samsung, è un colosso, e il fatto che abbia scelto noi al posto di un produttore coreano – e ricordo che la Corea è il leader mondiale in fatto di skincare – ci ha riempito di soddisfazione. Per noi, l’Asia è un mercato particolarmente strategico: contiamo 5 stabilimenti nel continente, di cui 4 in Cina e uno in Corea, quest’ultimo attualmente in costruzione. Stimiamo a fine 2016 di raggiungere in Asia un fatturato pari a circa 120 milioni di dollari, con l’obiettivo per il 2020 di arrivare a oltre 220 milioni di dollari.
Tornando all’Italia, possiamo dire che anche da noi il mercato b2b ha buone possibilità di sviluppo?
Sì, il mercato cresce perché sta cambiando la distribuzione. Fenomeni come Sephora, oppure Ulta (che non è presente in Italia, ndr), nonché i drugstore, hanno cambiato il panorama. In particolare, la nascita delle catene di profumeria ha portato con sé la presenza di nuovi marchi in esclusiva. Inizialmente, si trattava di emerging brand, poi sono stati acquisiti dai grandi gruppi del beauty, ma la particolarità di questi marchi è che hanno un processo produttivo molto veloce. Il loro time to market è tra 6 e 8 mesi, mentre quello dei brand tradizionali è tra 18 e 21 mesi.
E questo cosa comporta?
Comporta che oggi la rapidità è l’elemento più richiesto sul mercato. Tutti i fabbricanti di cosmetici seguono, o meglio cercano di seguire, il modello-Zara, a innovazione continua, per lanciare novità a cadenza quasi mensile. E i clienti sanno che Intercos garantisce un’elevata rapidità.
di Vanna Assumma