La cosmetica made in Italy cammina a marcia ridotta. Secondo lo studio Pambianco sui fatturati 2018, le prime 20 società crescono del 2,9%. Le dimensioni restano contenute.
Nel 2018, le prime 20 aziende beauty italiane avanzano a livello di fatturato del 2,9 per cento. Una crescita piuttosto ‘timida’, considerato che queste aziende sviluppano il business non solo in Italia, ma in tutto il mondo. Andando più nel dettaglio dello studio Pambianco sui fatturati riportati l’anno scorso dalle top 20 che portano bandiera italiana, si nota che solo 3 aziende accelerano a doppia cifra (Euroitalia, Davines e Agf88 Holding), e ben 7 realtà hanno archiviato l’esercizio con segno ‘meno’. In particolare, spicca Kiko, la prima in classifica per dimensioni, che ha incassato un -3%, a differenza dei bilanci degli ultimi anni che riportavano ricavi in crescita. L’azienda del Gruppo Percassi rimane in cima al ranking con 592 milioni di euro fatturati nel 2018, staccando di gran lunga Euroitalia, che segue in seconda posizione con 395 milioni di euro. La retromarcia di Kiko è legata alla ristrutturazione della rete di vendita con chiusura di 137 negozi; alle attività in dismissione; nonché ai costi di negoziazione degli accordi sul debito finanziario e all’ingresso del fondo di private equity Peninsula Capital. Viceversa, le vendite e-commerce di Kiko sono cresciute sensibilmente (+7%), totalizzando un valore pari a 22,5 milioni di euro nel 2018.
ANCORA (TROPPO) PICCOLI
Una riflessione che scaturisce dallo studio Pambianco è che le aziende beauty italiane continuano a essere realtà di dimensioni ridotte. Non si notano decisivi salti in avanti in termini di crescita e consolidamento. Infatti, il 95% del comparto bellezza tricolore è fatto da Pmi. Il presidente di Cosmetica Italia, Renato Ancorotti, aveva affermato in un’intervista rilasciata l’anno scorso a Pambianco Beauty che il motto ’piccolo è bello’ non è più valido. “L’imperativo è crescere – aveva sottolineato – perché l’Italia soffre di ‘nanismo’ industriale, e per di più oggi le aziende devono affrontare sfide che si possono vincere solo grazie alle dimensioni”. Ancorotti continuava dicendo che le Pmi sono l’ossatura generale del mercato italiano, ma la necessità di crescita è valida soprattutto “per l’industry cosmetica, che deve garantire ripetizione, omogeneità, sicurezza del prodotto, e lo può fare con la presenza di figure specializzate a sovrintendere ogni processo. E questo richiede grandi risorse. L’imprenditore italiano deve fare un salto culturale, deve managerializzare la sua azienda, perché in questo modo diventa anche più trasparente”. Le aziende italiane sono ancora molto legate ai canali tradizionali. Lo ha sottolineato David Pambianco durante lo scorso Beauty Summit organizzato da Pambianco Strategie di Impresa: “Sebbene in forte crescita, l’e-commerce non conta ancora numeri ‘importanti’ nelle aziende beauty italiane, che sono di dimensioni ridotte e poco internazionali”. Il CEO di Pambianco ha aggiunto: “In un mercato internazionale dove compaiono sempre più spesso aziende native digitali, l’Italia è pressoché assente nella nascita di startup o di progetti sul web”. Una strada per crescere è l’apertura a capitali esterni, ma le aziende della bellezza si dimostrano particolarmente chiuse nei confronti della finanza. Questo aspetto è emerso da una ricerca condotta l’anno scorso da Ermeneia sul rapporto tra aziende beauty e credito bancario ed extrabancario. Ne è risultato che solo una minima parte delle aziende cosmetiche italiane sono interessate all’ingresso nel capitale di società finanziarie e fondi d’investimento. Uno dei motivi è che gli imprenditori hanno il timore di perdere il controllo sulla propria azienda. Ancorotti, su questo tema, ha osservato: “Il private equity, una volta che entra nella proprietà dell’azienda, la rivolta come un calzino: analizza l’area finanziaria, amministrativa, operativa, logistica, ambientale, misura l’impresa in tutte le sue performance. Ma alla fine la trasparenza ‘paga’, si acquisisce valore. E poi l’imprenditore deve capire che l’azienda non è ‘casa sua’, è un bene sociale, è finalizzato a creare occupazione e ad aiutare la comunità”.