Le private label beauty consentono margini tra il 60% e l’80%. ma per i retailer resta un fronte delicato per timore di rompere gli equilibri con l’industria.
“Non vorrei toccare questo argomento”. Preparatevi a questa risposta se chiedete ai retailer di parlare dell’argomento private label. E a una temperatura in progressiva caduta se le domande cadono sulla marginalità delle etichette private, e sui volumi che queste rappresentano. Perché i marchi beauty di proprietà dei negozianti sono un ‘affare che scotta’, e la ritrosia nel parlarne è probabilmente legata al timore della distribuzione di rompere i delicati equilibri con l’industria, trattandosi di brand commerciali che fanno concorrenza, inevitabilmente, a quelli delle aziende. Nonostante l’argomento sia tabù, Pambianco Beauty ha cercato di approfondire il tema, e, in base a ricerche e indiscrezioni, si è scoperto che sugli own brand di bellezza i profumieri hanno una marginalità tra il 60% e l’80% del prezzo di vendita, contro un range tra il 20% e il 30% dei brand industriali. Le private label sembrano quindi la classica gallina dalle uova d’oro, ma in realtà il loro peso sul totale vendite rimane necessariamente contenuto, perché il retail deve rispettare, come già detto, i rapporti con le aziende e non creare ‘troppa’ concorrenza.
PICCOLE LABEL CRESCONO
Nonostante le linee di proprietà del negoziante non saranno mai le protagoniste del business, stanno comunque ritagliandosi uno spazio importante e si assiste a ingressi di nuovi own brand e all’ampliamento di gamma di quelli esistenti. Infatti, grazie alla disponibilità di alcuni retailer, alla fine l’argomento-tabù è stato chiarito e si è evidenziato il ruolo crescente che occupano oggi le etichette commerciali. Ethos Profumerie, ad esempio, è l’unico gruppo di insegne condivise in Italia ad aver lanciato una private label di toiletries lo scorso ottobre, Aria, e bisserà con un secondo marchio di proprietà nella primavera 2019. Quest’ultimo è una linea di fragranze (due femminili, una maschile e una unisex) prodotta da Mavive, che ha creato anche il packaging primario e secondario. Anche il marchio Aria si amplierà nel 2019 e si aggiungeranno alla gamma quattro prodotti per la pulizia del viso. Il direttore generale di Ethos Profumerie Mara Zanotto ha affermato che le vendite stanno andando molto bene: “Dopo un mese e mezzo dal lancio, ho dovuto già fare un riordino”. E ha aggiunto: “Ci abbiamo messo un anno e mezzo a fare la prima private label perché volevamo selezionare i fornitori per avere una qualità eccellente, un pack perfetto, la registrazione idonea”. Anche Mazzolari conta 4 private label (Mazzolari, Imperial, Terme Imperiali, Juki No Shingyu) e ha intenzione di ampliare la gamma, magari con profumazioni per la biancheria. Così commenta il titolare Augusto Mazzolari: “I retailer fanno sconti su tutto, non c’è più margine per le profumerie. Ecco perché i brand di proprietà diventano importanti e per noi rappresentano circa il 20% del fatturato”. Piani di sviluppo in questo settore anche per Rossi Profumi, che ha creato la sua etichetta Grand Tour che comprende profumi, toiletries e solari e sta già sperimentando una linea di skincare viso. “Abbiamo pensato a questo nome- osserva Ilaria Rossi, responsabile progetto Grand Tour – perché evoca il viaggio culturale e romantico della nobiltà europea e dei poeti in Italia. Ci permette di creare un’atmosfera, di fare storytelling, e di radicare i valori del marchio”. Rossi aggiunge che la private label consente sì una maggiore marginalità “ma è importante considerare la marginalità non solo in termini percentuali, ma anche in valori assoluti sulla vendita, perciò la nostra marca non va a togliere spazio alle grandi marche”. Insomma è una questione, come già detto, di equilibrio nell’assortimento. Ritornando alle new entry, Pinalli ha appena lanciato la own brand di pennelli da trucco Pinalli Pro Expert, ma il brand andrà a coprire gradualmente tutto il mondo dell’accessoristica. L’AD Raffaele Rossetti anticipa che nel consiglio di amministrazione del 2020 porterà, tra i vari obiettivi per gli anni successivi, sicuramente il lancio di nuove private label. Fermento anche nel mondo dei drugstore, dove Tigotà conta diverse etichette commerciali, tra cui Le Driadi, Dentask, Biolis e Fragranteria. “Tra aprile e maggio 2019 – sottolinea Pericle Ciatto, direttore marketing di Gottardo, a cui fa capo l’insegna – lanceremo un nuovo marchio di proprietà per l’igiene persona”. Il manager specifica che nella Gdo, per quanto riguarda le private label dei diversi settori merceologici, l’Italia è indietro rispetto ad altri Paesi. Ad esempio, In Inghilterra e in Spagna le etichette della distribuzione coprono il 50% del valore totale, mentre nella Penisola l’incidenza si ferma attorno al 20 per cento.
SÌ, MA A CERTE CONDIZIONI
Assodato quanto siano economicamente vantaggiose le private label, va detto che il business è sostenibile solo a certe condizioni. “Le proposte devono essere realmente diverse – specifica Ilaria Rossi – e devono coprire i settori che l’industria trascura. Ad esempio, sui solari le aziende non investono più in termini di comunicazione e di innovazione, probabilmente perché è un prodotto stagionale, non continuativo e quindi più difficile da gestire”. Stesso discorso vale per le toiletries, altro comparto trascurato dall’industria, e oggetto della private label di Rossi. La necessità di differenziarsi dai prodotti ‘brandizzati’ è sostenuta anche da Fabio Pampani, AD di Douglas Italia, che specifica: “Le private label permettono un’ampiezza di assortimento in tutte le categorie che pochi marchi industriali hanno. Inoltre si offre al cliente l’esclusività, perché questi marchi sono in vendita solo nei negozi dell’insegna”. Douglas ha due marchi di proprietà, Dnc (Douglas Nocibé Collection) e Maison Bio, che coprono tra il 10% e il 12% del totale fatturato pre-acquisizione di Limoni. Non funzionano invece le etichette commerciali di make-up, perché, come spiega Augusto Mazzolari, “per il trucco ci vogliono grandi volumi, i fornitori impongono minimi elevati, ovvero diverse migliaia di pezzi, e difficilmente i retailer possono fare numeri così alti”. Affermazione condivisa da Pericle Ciatto, che aggiunge: “Il make-up è complesso, richiede in continuazione novità e quindi necessita di aggiornamento periodico, fatto che comporta merce fuori-stock e quindi costi fissi elevati”.
DA RETAILER A TITOLARE DI BRAND
Gestire una private label richiede uno sforzo di cambiamento da parte del retailer che, da semplice commerciante, si deve trasformare in titolare di brand, con tutto quello che ne consegue in termini di ‘brand building’. Proprio per questo motivo, Pinalli ha temporaneamente fatto un passo indietro, cioè ha ceduto la sua private label di haircare Avivah, pur mantenendone l’esclusiva di vendita. “Bisogna essere specializzati nel fare produzione – ha commentato l’AD della catena – per indivuare il design del prodotto e del pack, il lettering, il branding, e costruire campagne marketing. Attualmente, abbiamo più competenze interne per sviluppare l’accessoristica, che tra l’altro è un segmento poco presidiato nel canale profumeria”. Mara Zanotto sottolinea inoltre che le private label dovrebbero essere più sostenute dai negozianti, anche in termini di advertising, perché non godono del vantaggio di brand awareness che hanno i marchi industriali, su cui si riversano budget milionari di comunicazione. La differenza, come sempre, la fa il ‘quantum’ degli investimenti.