Le aziende della cosmesi in italia sono ancora piccole. Occorre una nuova managerialità e l’ingresso del capitale per darsi strutture internazionali. Il settore piace alla finanza, ma il ruolo del private equity è ancora inespresso. La distribuzione invece cerca sinergie con le aziende. I canali che crescono di più sono i monomarca e l’e-commerce.
Crescere dimensionalmente per affrontare le sfide internazionali. È questo il ‘mantra’ che è stato ripetuto da diversi relatori nel corso del primo Convegno Beauty, organizzato da Pambianco Strategie di Impresa in partnership con EY, dal titolo “La rivoluzione nell’industria della cosmetica – I nuovi trend e gli attori che stanno cambiando il sistema“. Nell’ex sala grida della Borsa Italiana, lo scorso 4 maggio, si sono succeduti sul palco operatori finanziari e manager di aziende, e in molti hanno sottolineato come l’industria della bellezza in Italia sia una realtà composita e articolata, fatta di imprese di medio-piccole dimensioni, molto propense a esportare, perché il mercato interno cresce con numeri risibili (+0,5% nel 2016 secondo i dati di Cosmetica Italia). Lo ha affermato Roberto Bonacina, partner e lead advisor Tas-EY, sottolineando quanto siano necessari gli investimenti per competere e dato che i mercati da raggiungere sono sempre più lontani, è opportuno che gli imprenditori realizzino partnership, aggregazioni o si aprano al capitale. Lo ha ribadito David Pambianco, AD di Pambianco Strategie di Impresa, che ha specificato come il 57% dell’export cosmetico italiano sia indirizzato a 10 Paesi, e tra questi non sono presenti mercati asiatici (a parte Hong Kong). Da ciò si deduce come in Asia ci siano ancora molte possibilità di sviluppo per le aziende della bellezza tricolori. Chiaramente, diventa necessario dotarsi di risorse per affrontare questo continente, che gode di elevati tassi di crescita ma al contempo vede la discesa in campo di forti player provenienti da tutto il mondo. È stato anche l’argomento con cui Raffaele Jerusalmi, AD Borsa Italiana, ha aperto i lavori del Beauty Summit, osservando che tutte le aziende oggi devono affrontare le sfide dettate dalla tecnologia, dalla globalizzazione e dalla difficoltà di difendere i brand. “Avvicinarsi al mercato dei capitali può aiutare – ha affermato – e la Borsa offre servizi dedicati alle piccole e medie imprese. Sono 50 oggi le aziende quotate nel settore dei consumer goods per 80 miliardi di capitalizzazione e il progetto Elite conta 566 società in Europa di cui 300 italiane”. Così come è stato per le imprese della moda e del lusso, la quotazione nel mondo del beauty sarebbe un boost per accelerare il percorso di crescita delle aziende, un aiuto per attrarre nuovi talenti e per procedere ad acquisizioni mirate.
I NUMERI DEL BEAUTY
Sul palco di Palazzo Mezzanotte inoltre è stato presentato lo scenario e i numeri del mondo beauty, cercando di capire perché il settore da qualche anno fa gola alla finanza.Si tratta di un mercato in crescita: la filiera italiana del beauty vale all’incirca 15 miliardi di euro e il 18% delle aziende mostrano un avanzamento superiore al 10%, con un tasso di crescita medio del comparto del 5,05%, superiore a quello dell’occhialeria, della gioielleria, della moda e di altri mercati lifestyle. Sono i dati presentati da Fabio Rossello, presidente di Cosmetica Italia, associazione che rappresenta 500 aziende del comparto con 35mila addetti. “Se si considera l’ebit medio dell’industria dei diversi settori – ha illustrato – quello della cosmetica è pari al 7,5%, preceduto solo dalla farmaceutica (ebit a 9,5%), e dall’occhialeria (7,7%), mentre supera tutti gli altri settori merceologici italiani, come quello dei mobili (4,7%), della moda (4,5%), quello alimentare (4,4%) e in generale il manifatturiero”. L’industria della bellezza in Italia produce 10,5 miliardi di euro, di cui 4,3 miliardi vengono generati all’estero (+12,3%) e il saldo commerciale di questo mercato l’anno scorso è stato di 2,3 miliardi di euro. “Il valore della bilancia commerciale nel beauty – ha commentato Rossello – è superiore a quello di mercati altrettanto importanti per l’Italia, come lo è quello della pasta, degli yacht, dell’acciaio”. Un altro aspetto che differenzia le aziende della cosmetica da altri settori è la percentuale degli investimenti in ricerca e sviluppo, che nel mondo della bellezza tricolore è pari al 7% sul fatturato, contro una media nazionale stimata attorno al 3 per cento.
SINERGIE AZIENDE E RETAIL
Un altro tema che ha riscosso interesse è quello delle ‘sinergie’ da attivare in un mercato fatto da attori che si muovono a compartimenti stagni. Il Beauty Summit è stato una prova in questo senso, perché in Piazza Affari erano presenti oltre 350 rappresentanti di imprese italiane e di filiali di multinazionali operanti nella profumeria, nella farmacia, nella grande distribuzione, nel canale professionale, nelle erboristerie, passando per i monomarca e per le realtà digital. Ma anche rappresentanti del mondo finanziario, dei servizi M&A, e del retail. Quest’ultimo ‘anello’ del sistema, la distribuzione, ha portato la sua voce sul palco, nella persona di Michelangelo Liuni, presidente dell’associazione dei profumieri Fenapro, che ha raccontato come un importante passo nella costruzione di sinergie sia il progetto di qualificazione professionale del personale delle profumerie lanciato dall’associazione in collaborazione con l’industria. Liuni, all’inizio del suo intervento, ha anticipato le ultime rilevazioni sul sell-out del canale: “A fine marzo 2017 le vendite year-to-date delle profumerie italiane sono state negative, sia in termini di valore sia di volume. Non possiamo nascondere il momento di sofferenza dei consumi, ma questo non ci scoraggia perché stiamo recuperando lo scollamento tra aziende e distribuzione”. Recupero che, ha spiegato Liuni, avviene attraverso il progetto ‘Beauty Coach’ che permette il riconoscimento del valore storico delle profumerie, in primis la loro capacità di consulenza nel mondo della bellezza, che è un valore che fa parte della tradizione di questi negozi in Italia. Il miglioramento dello standard formativo del canale passa oggi attraverso la creazione di un albo professionale, e in futuro si penserà a un segno distintivo nell’insegna, al pari della ‘croce verde’ per le farmacie, che identifichi le profumerie di eccellenza. In questa occasione, in mezzo a un consesso fatto dai maggiori operatori del settore, Liuni ha lanciato una proposta alle aziende, che sarebbe un altro passo verso la sinergia tanto auspicata: realizzare insieme (retail e imprese) una campagna pubblicitaria di canale, una sorta di advertising istitizionale per promuovere i valori delle profumerie italiane e soprattutto per far conoscere all’utente finale il nuovo progetto di qualificazione professionale dei negozi. Un passo necessario a comunicare l’identità della profumeria selettiva.
CHI DISINTERMEDIA VINCE
Uno spaccato sulla distribuzione è stato presentato anche da David Pambianco, che ha illustrato una ricerca qualitativa frutto di interviste condotte da Pambianco in collaborazione con Cosmetica Italia (vedi articolo nelle pagine seguenti). L’esito di queste interviste al retail e alle aziende ha portato a una considerazione sull’evoluzione della distribuzione: il mercato della bellezza tende alla disintermediazione. “I canali che crescono di più – ha confermato infatti Pambianco – sono quelli piccoli e diretti, come i monomarca e l’e-commerce”. Le insegne di proprietà sono ancora poche in Italia e il giro d’affari del canale monobrand è ridotto: vale l’8% del settore cosmetico e cresce del 5 per cento. “La quota dei monomarca nell’abbigliamento – ha ricordato Pambianco – è pari al 43% del mercato, per cui le prospettive di sviluppo per gli own brand del beauty sono elevate. Bisogna anche considerare che i Millennials preferiscono questi negozi ai canali tradizionali”. Forte crescita infine per l’e-commerce, che vanta potenzialità inespresse. Esemplare un caso su tutti: le vendite beauty di Amazon hanno generato a livello mondiale 2,5 miliardi di dollari nel 2016 (+47%), un dato che rappresenterebbe il 25% del consumo italiano. La sfida quindi è always on.
di Vanna Assumma