I terzisti italiani della cosmetica crescono. I primi 20 hanno già superato un miliardo di euro di fatturato e investono in innovazione per anticipare le tendenze. Non sono più fornitori ma partner, però non pensano a una politica di branding.
Il fatturato dei primi 20 terzisti cosmetici italiani supera un miliardo di euro. Considerando le diverse centinaia di aziende beauty contoterzi della Penisola, si può quindi immaginare come il giro d’affari possa arrivare a numeri rilevanti. Peraltro, il dato citato comprende anche le produzioni realizzate all’estero, viceversa non include le quote delle aziende che destinano una minima parte della capacità produttiva al b2b. Se si dovessero sommare tutte le varie realtà, quindi, il giro d’affari totale del contoterzismo sarebbe molto alto. “Ci sarebbero anche altre voci da aggiungere sul totale settore – ricorda Romualdo Priore, direttore marketing strategico di Chromavis – che è ciò che io chiamo ‘quartismo’. Cioè tutte le aziende che, a loro volta, forniscono i terzisti, ad esempio i produttori di packaging, di flaconi, e coloro che riempiono i contenitori”. Chromavis tre anni fa è stata acquistata dalla francese Fareva, un colosso del terzismo che ha sfiorato 1,3 miliardi di euro nel 2015. L’italiana Chromavis invece ha totalizzato l’anno scorso 138 milioni di euro, in crescita del 52,4% sul 2014.
MAKE-UP IN POLE POSITION
Il terzismo è un settore che lavora dietro le quinte, poco conosciuto dal consumatore finale. Eppure il rossetto della star hollywoodiana, indossato sul red carpet e poi pubblicato su tutti i giornali del mondo, molto probabilmente è nato dalle menti (e dalle mani) italiane. “Perché circa il 65% del make-up mondiale è prodotto in Italia”, spiega Matteo Locatelli, presidente del Gruppo Produzione Contoterzi di Cosmetica Italia, nonché titolare dell’azienda Pink Frogs, che nel 2015 ha generato quasi 4 milioni di euro. L’Italia, del resto, è riconosciuta nel mondo per la sua creatività e per la manodopera specializzata. Nella moda, la manifattura made in Italy ha un valore ineguagliabile, sintetizzato nell’espressione ‘bello e ben fatto’. Per quanto riguarda la cosmetica, è sul make-up che il Belpaese detiene la leadership della produzione mondiale, perché skincare e profumi hanno diverse ‘bandiere’ di riferimento. L’Italia mantiene anche in questi settori un ruolo importante, ma combatte sul campo con altri Paesi, Francia in primis.
A CHI VANNO I PRODOTTI
I cosmetici realizzati dai terzisti italiani soddisfano completamente il fabbisogno interno. Cioè, le aziende tricolori della bellezza non si rivolgono all’estero per commissionare i prodotti. “Il beauty b2b – spiega Locatelli – va per il 40% in Italia, soddisfacendo tutte le richieste delle aziende cosmetiche, e per il 60% all’estero, soprattutto in Europa”. Per fare un esempio, Cosmint, attiva sia nel make-up sia nel personal care, lavora soprattutto per le multinazionali e genera l’80% dei ricavi all’estero. Nel 2015 questa azienda, che produce oltre 200 milioni di pezzi l’anno e conta 700 dipendenti, ha fatturato 128 milioni di euro. Icr-Industrie Cosmetiche Riunite lavora invece per molti brand del lusso italiano. “Bulgari è nato con noi – sottolinea Ambra Martone, consigliere del gruppo specializzato in profumeria alcolica – e infatti il primo profumo della maison, Eau Parfumée au Thé Vert, l’abbiamo realizzato noi vent’anni fa. E anche dopo che la maison è stata acquisita da Lvmh, abbiamo mantenuto l’esclusiva”. Icr produce anche le fragranze per il Gruppo Angelini, nonché private label per i retailer, ad esempio, per Intimissimi e Ovs.
PERCHÉ RIVOLGERSI AI TERZISTI?
La domanda è: perché le multinazionali allocano all’esterno una parte della produzione, pur avendo spesso unità produttive interne? “Il motivo – osserva Decio Masu, presidente di Cosmint – è che le multinazionali possiedono stabilimenti con linee molto automatizzate, adatte alla produzione di grandi lotti, mentre il cosmetico prestige richiede l’uso di macchine versatili, flessibili, adatte per piccoli lotti”. Ma c’è un’altra ragione, e cioè che nel mondo b2b non risiede solo la ‘mano’, ma anche la ‘mente’ dei prodotti. O, almeno, è quello che sostengono i terzisti. “Investiamo tantissimo in innovazione – racconta Renato Ancorotti, presidente di Ancorotti Cosmetics – e infatti presentiamo ai clienti le nostre collezioni, pensate e create da noi, e poi le customizziamo sulle loro richieste”. Ancorotti, tra l’altro, ha avuto una crescita accelerata dei ricavi nel primo trimestre 2016 (+93%), con una previsione per il secondo trimestre di +105%, per arrivare a 70 milioni di euro a fine anno (erano 43,5 milioni nel 2015).
FULL-SERVICE
Parlare di produzione conto terzi, dunque, non è propriamente corretto perché non esiste più il terzista ‘puro’ del dopoguerra, che lavorava su commesse produttive, ma si è sviluppata una nuova generazione di aziende b2b: i terzisti sviluppatori o developer, cioè proattivi, creatori. “Non offriamo più solo la capacità di produrre – osserva Locatelli -, anzi questo è ormai scontato. Offriamo innovazione sui trend emergenti. Noi ci presentiamo infatti come innovatori formulativi, e ogni anno sviluppiamo 10 nuove tipologie di prodotto skincare ed haircare che non esistevano sul mercato. Siamo anticipatori delle tendenze”. Locatelli spiega che i clienti chiedono anche consulenza di marketing ai terzisti, cioè l’interpretazione di studi di mercato. Insomma, oggi il terzista ha più il ruolo del partner che quello del fornitore. E quindi cerca di sviluppare servizi sempre più perfezionati per offrire valore aggiunto. Ad esempio, Pink Frogs ha investito quest’anno 800mila euro per sviluppare un’area dedicata al confezionamento automatizzato dei sampling nella profumeria alcolica. In questo modo, il riempimento e il confezionamento dei campioni di profumo avviene in tempi molto rapidi: 2 al secondo, 7.200 all’ora, 100mila al giorno. Contratti full-service vengono stipulati anche dai contoterzisti delle fragranze, i quali, per fornire ai clienti il prodotto finito, devono a loro volta acquistare tutti i componenti, cioè i flaconi, le ghiere, gli astucci. Anche qualora questi componenti vengano forniti dalle aziende committenti, in ogni caso il terzista sviluppa le formulazioni, nonché il riempimento, il confezionamento e la logistica, quindi fornisce tutta la manodopera. “Noi abbiamo anche un’apposita divisione – aggiungono da Icr – che si occupa dello sviluppo creativo del packaging e dei concetti legati ai profumi”.
DA B2B A B2C
Integrare la produzione conto terzi con la creazione di un marchio consumer sembra un’equazione impossibile. O quasi. Il fatto è che in altri settori, come quello della maglieria nel carpigiano, i terzisti hanno saputo attuare politiche di branding per fronteggiare la complessità del mercato. Viceversa, gli operatori b2b della cosmetica non credono che un driver di sviluppo possa essere la creazione di un marchio di proprietà e la vendita al consumatore finale. “Non farei mai un brand consumer – sentenzia Locatelli – perché ognuno deve fare bene il suo mestiere. Noi progettiamo nuove formulazioni e realizziamo il prodotto, ma non sappiamo venderlo al consumatore finale. Non conosciamo le logiche di mercato, di distribuzione, né come posizionare e valorizzare i prodotti”. Lo stesso discorso vale per Ancorotti che aggiunge: “La nostra vocazione è lavorare per altri, perché produciamo grandi quantità. Noi realizziamo, ad esempio, un milione di chili di mascara l’anno. E sicuramente non potrei vendere questa quantità di prodotto solamente con un mio ipotetico brand”. La maggior parte dei terzisti concorda nella scelta di evitare una strategia di branding, apportando come ulteriore motivazione una sorta di ‘conflitto di interessi’, cioè la possibile competizione che si verrebbe a creare con i clienti cui vengono forniti i prodotti. Esistono in realtà alcune voci dissonanti nel panorama del terzismo italiano, ed una di queste è quella di Icr, che dispone di un proprio brand storico, Marvin. Questo marchio, prodotto e commercializzato da Icr, porta il nome dell’azienda farmaceutica fondata da Vincenzo Martone, e successivamente trasformata dal figlio Roberto nell’attuale Icr. “Marvin è un marchio storico che abbiamo riportato in vita – riprende Ambra Martone – ed è oggi una linea di profumi di nicchia che è esposta e venduta laddove c’era la nostra vecchia fabbrica di fragranze, in via Tortona a Milano. Qui abbiamo fondato l’Hotel Magna Pars Suites Milano, che è il primo hotel à parfum nel capoluogo lombardo”. All’interno dell’albergo si trova il laboratorio LabSolue, che evoca la storia dell’azienda con arredi degli anni 60, e che offre un percorso olfattivo tra 39 note legnose, fiorite e fruttate. In questo ambiente raffinato è presente anche una libreria con opere sull’arte profumiera e sulla letteratura delle essenze, che gli ospiti possono comodamente sfogliare. Insomma, molto più di un semplice esercizio commerciale, anche perché le fragranze Marvin vengono preparate su misura al momento. Tutto l’hotel è ispirato al mondo delle essenze, perché ogni suite evoca una materia prima utilizzata per la realizzazione delle fragranze, ad esempio bergamotto, zagara, rosa o gelsomino. Le stanze, quindi, prendono il nome dell’ingrediente floreale, e il design interno e le decorazioni sono personalizzati in base alla materia prima, che chiaramente viene diffusa come profumazione d’ambiente. “Gestiamo noi l’hotel – conclude Martone – nonché il laboratorio dei profumi e il ristorante”. E aggiunge: “Il nostro own brand non va in competizione con quelli dei clienti, perché ha un posizionamento differenziante ed è venduto esclusivamente al Magna Pars”. Per ora, comunque, si tratta di una voce pressoché isolata in una panorama che vuole rimanere orgogliosamente b2b. Sull’altro lato della barricata, ovvero tra le aziende titolari di brand (b2c), non mancano realtà che, pur sviluppando in modo prioritario la gestione dei marchi rivolti direttamente al consumatore, hanno al loro interno un business b2b. È il caso di Alfaparf, titolare di marchi per la cura dei capelli, che dispone di una divisione di produzione conto terzi. E quest’ultima non è affatto un business marginale per l’azienda, dato che ha fatturato ben 50 milioni di euro nel 2015.
di Vanna Assumma